PARAFRASANDO QUA E LÀ

Spaccato di varia Umanità, interpretato nel segno del buon senso, della propositiva ironia, del fare "Pro", giammai del fare "Contro".

Spesso si usa fare un distinguo, nella pratica dei giochi, tra quelli che sono, per così dire, più adatti per i piccoli e quelli che sono più consoni per i grandi!
Ebbene, qualche volta, e per motivi che non sto qui a puntualizzare, mi è capitato di potere e dovere riflettere su tale cosa. Ho trovato qualche difficoltà, dopo avere valutato alcuni aspetti di ordine pedagogico, nel potere continuare ad asserire la netta distinzione delle due categorie suddette.

La perplessità sul potere continuare ad asserire che da un lato possano esistere “giochi per i grandi” e dall’altro possano esserci “quelli per i piccoli”, è discesa soprattutto dalla constatazione che il gioco in quanto tale è simultaneamente fine e mezzo. Fine, perché ciò che è ludico determina una categoria in ordine ad azioni che si definiscono in sé, nell’atto stesso del giocare. Mezzo in quanto un gioco serve per…! Fine e mezzo del gioco, potremmo asserire, hanno un leitmotiv: sono aspetti che coinvongono la sfera emozionale di ciascuno e, per questo, si determinano via via, in relazione alla persona, ai suoi vissuti, alle sue dinamiche comunicative. Il gioco, in quanto tale, “diverte”, collocando, cioè, la sfera delle relazioni del soggetto, un una dimensione “altra” in cui creatività, astrazione, immaginario si condensano in un tutt’uno emotivo che gratifica e rinforza il soggetto, sia esso giovane, sia esso più adulto. Ma, la riflessione sull’opportunità di distinguere in maniera netta i giochi per grandi da quelli per piccoli ha ragione di essere in rapporto alle conseguenze che tale differenza va a suggellare. Il mondo dei media, l’industria del settore, i tecnici che progettano i giochi, da canto loro, propongono categorie mentali, ancor prima di oggetti che, in sé, servano a “divertere”. E, per questa ragionare, se il gioco in quanto tale si eleva a categoria mentale, in teoria non ha più senso fare il distinguo. Cosicché, non può essere escluso che un adulto possa divertirsi maneggiando una macchinina o smontandone i suoi pezzi, così come questa cosa possa essere fatta da un bambino. Entrambi, per l’esempio che vale come tale, possono trovare gratificazione psicologica, seppur per ragioni diverse, da tale attività. Tanto è plausibile che, per alcuni giochi, ad esempio quelli elettronici, in effetti il distinguo del loro target è assai più sfumato: sia i piccoli che gli adulti utilizzano il terminale per “giocare” e, probabilmente, in questi casi, con la stessa motivazione. Da qui, una semplice constatazione, un dubbio: ha senso, allora, parlare di “giochi per adulti e giochi per bambini” come categorie riconducibili a dinamiche pedagogiche a se stanti, e quindi perpetrare detta differenziazione? Ha significato, pertanto, distinguere tra un “gioco per gli uni e un gioco per gli altri”, sottovalutando proprio la componente emozionale e psicologica che il gioco in quanto tale comprende in sé e che accomuna, per gli effetti che produce, tanto i piccoli, tanto i grandi?
Se quanto detto, fino ad ora, può essere sostanziato da ragioni educative congrue e definibili in contesti di dibattito di senso, ne consegue che l’idea del gioco assume differenziate valenze, ampliandosi nella sua accezione e che, per questo, essa si possa ricondurre ad azioni che non necessariamente debbano distanziarsi dal cognitivo. Più semplicemente, si può ritenere che ogni gioco può e debba essere, anche, non solo un momento più tipicamente ricreatorio, bensì una dinamica strutturata di tipo cognitivo che presupponga, anche, impegno, concentrazione, ragionamento, astrazione, riflessione… studio, insomma. E, questo, a prescindere dall’età!